Friday 28 November 2008

dalla storia all'autobiografia. Francesco Masala.




(Una chicca cari amigus, una Cladinè ventenne che legge il testo di Masala "Dalla storia all'autobiografia"  e si fa un arrangiatissimo montaggio musicale sotto con canzoni di Kenze Neke, Menhir, Mauro Palmas e Cordas e Cannas.) Niente di chè ma diciamo che era sentito!
Cladinè , Donostia (EH) 2006.

"Sono nato in un villaggio di contadini e di pastori,
fra Goceano e Logudoro, nella Sardegna settentrionale e, durante la mia infanzia,
ho sentito parlare e ho parlato solo in lingua sarda:
in prima elementare, il maestro, un uomo severo sempre vestito di nero,
ci proibì, a me e ai miei coetanei, di parlare nell’unica lingua che conoscevamo e ci obbligò a parlare in lingua italiana, la «lingua della Patria», ci disse.

Fu così che, da vivaci e intelligenti che eravamo, diventammo, tutti, tonti e tristi.



In realtà, la lingua sarda è il linguaggio del grano, dell’erba e della pecora ma è, anche, la lingua dei vinti:
nelle scuole, invece, viene imposta la lingua dei vincitori, chiamiamola pure il linguaggio del petrolio e del catrame, cioè la lingua della borghesia italiana del Nord, che ha concluso il Risorgimento colonizzando industrialmente il Sud ma convincendoci di aver uni ficato la Patria.

È proprio vero che, in Sardegna, gli unici «italiani» sono gli «intellettuali», che parlano in
«italiano» ma mangiano in «sardo».

In uno spiazzo, vicino alla scuola elementare, il maestro vestito di nero fece piantare un certo numero di alberelli e lo denominò «Parco della Rimembranza».
Ogni alberello fu dato in consegna a un balilla-guardia d’onore.
Io ebbi il mio alberello da guardare, sul mio onore. Un bel giorno, una capra, penetrata nel
Parco della Rimembranza, si avvicinò al mio alberello e cominciò a scorticarlo. Io, forse perché ero tonto o perché avevo paura delle capre, non ebbi il coraggio di cacciarla via e la capra si divorò tutto l’alberello.

Il maestro, severamente, in piena classe, mi chiamò traditore della patria e mi licenziò da guardia d’onore, con grossi paroloni, tutti naturalmente in lingua italiana.

Io, altrettanto naturalmente, non capii i paroloni ma, da quel giorno, mi sentii disonorato.

Ovviamente, in me, cominciarono a nascere delle riserve
sul concetto di patria.



Comunque, la mia carriera scolastica (dalle elementari del mio villaggio contadino fino all’università, a Roma, l’Urbe) mi ha lasciato bilingue: cioè, voglio dire, è stato l’itinerario di un antico fanciullo agro-pastorale verso la piccola borghesia cittadina, allora
deformata, gonfiata, travestita dalla retorica del fascismo.

Ero sotto il «balcone» di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940, il giorno in cui il «duce», con una orazione alla finestra, trascinò l’Italia e la Sardegna nella seconda guerra mondiale: noi studenti dell’Università di Roma facevamo un casino del diavolo, con grida e ap-
plausi, in appoggio all’oratoria epica e colloquiale del Mussolini, soltanto perché c’era la possibilità di riempire di «diciotto» il libretto d’esami, senza aprire nélibro né bocca.

A pensarci bene, però, la guerra mi tolse, per così dire, dagli occhi, le bende di due retoriche ufficiali: da un lato, quella della «eroica piccola patria sarda» e, dall’altro lato, quella della «grande imperiale patria italiana».



A scanso di equivoci, prima di andare oltre, anche per evitare, nuovamente, l’accusa di traditore della patria, mette conto di dire che, la guerra, l’ho veramente fatta, sono stato decorato al valor militare, sono stato ferito in combattimento sul fronte russo, cioè, come comunemente si dice, ho versato il sangue per la patria.
Ma mi è capitato ciò che già capitò a mio nonno, gambadilegno, che perdette la gamba destra nella Battaglia di Custoza, durante la Terza Guerra d’Indipendenza: anche la mia intrepida gamba destra si è beccata la sua eroica pallottola, russa, stavolta, là, fra il Dnepr e il Don.

Voglio dire, insomma, che io e mio nonno, ambedue di nazionalità sarda, abbiamo fatto le guerre italiote da leali sardi, s’intende, eroi buoni, in tempo di guerra, ma cattivi banditi, in tempo di pace: in guerra, nelle patrie trincee, in pace, nelle patrie galere.

In compenso, se compenso c’è, in Russia cominciai la stesura del mio «bellico» romanzo, Quelli dalle labbra bianche, scoperto e pubblicato, molti anni dopo, da Giangiacomo Feltrinelli, buonanima, quando, venuto in Sardegna, da bravo milanese, confuse la mia isola con l’isola di Cuba.


Al mio ritorno in Sardegna, alla fine della guerra,
mi capitò di comprendere che,
con la caduta del fascismo,
in sostanza,
poco o nulla era cambiato,
nella terra dei nuraghi:
capitalismo fascista e capitalismo democratico,
stato accentratore fascista e stato accentratore democratico
erano la stessa musica,
anche se i musicisti erano cambiati.



Con regio decreto, il 27 maggio 1944, fu nominato Alto Commissario della Sardegna uno della nostra regione, Pietro Pinna: sardo, sì, ma generale italiota.

Comunque, fu una stagione di grandi democratiche speranze,
di grandi democratiche promesse,
di grandi democratiche bugie e di grande democratica fame.

E se è vero, come è vero, che la Rockefeller Foundation ci liberò dalla zanzara anofele, non è men vero che questa liberazione segnò la ricomparsa della sanguisuga, il continentale, il nemico che nuovamente veniva dal mare, non più tenuto lontano dalla paura della malaria.

I sardi, come al solito, senza sapere che in continente c’era l’inflazione,
vendevano ai continentali, al prezzo d’anteguerra, grano, lana, pelli, formaggio.

Quando qualcuno se ne accorse, propose di stampigliare i Quattro Mori sui biglietti della Banca d’Italia circolanti nell’Isola.
Era una forma di separatismo monetario.
Forse per questo, appunto, nacque a Sassari il Banco di Sardegna.

Intanto, sulle colonne dell’«Unione Sarda», Antonio Segni, futuro presidente della Repubblica Italiana, chiedeva reiteramente la ricostituzione delle Compagnie Barracellari, il Bargello campestre, soppresse dal fascismo: era seriamente preoccupato per i ladri di galline, che si aggiravano nella sua tenuta, Sa Crucca.

Era il dolce tempo in cui il giovane esploratore cattolico Francesco Cossiga succhiò la prima caramella democristiana, offertagli dal «Cugino», e succhiando succhiando arrivò al Quirinale.

Ed era, anche, il tempo in cui un altro «cugino», il giovane missile comunista Enrico Berlinguer, dalle rampe della prigione politica di San Sebastiano, andò ad atterrare in via delle Botteghe Oscure.

Ma ci fu anche qualche divertimento.
Alle elezioni, un candidato, certo avvocato Marche, oriundo italiota,
in un comizio a Sassari, davanti a ventimila persone,
per ottenere voti promise un ponte di ferro fra Olbia e Civitavecchia.
Fece la fine di Sant’Andrea che, legato alla croce, con una orazione, tenne avvinte ventimila perso
ne: ma nessuno lo liberò.
Il candidato-oriundo, a Sassari, tenne avvinte ventimila persone: ma nessuno lo votò.

Il giorno 8 maggio 1949 fu eletto il primo Consiglio regionale della Regione Autonoma della Sarde
gna.
A me non piace la «storia», i libri di storia intendo, perché essi sono, sempre, «storia dei vincitori»: in questo senso la Storia, come dire, è una grande tappatrice di buchi.
Andate a leggervi la Storia dei trent’anni di autonomia per la Sardegna, scritta da quattro
storici, pubblicata a spese della Regione Autonoma, curata dal Comitato dei Festeggiamenti per il Trentennale dell’Autonomia. Gente allegra!
Un poeta del mio villaggio mi aveva preavvertito con questo epigramma:

«Galileo aveva un amico,
come lui scienziato,
anche lui, per conto suo,
aveva scoperto
che la terra girava intorno al sole,
ma non disse nulla,
perché aveva moglie e figli».




Il fatto è - diceva Emilio Lussu - che l’Autonomia è nata come un cervo maschio, con le corna.
Man mano che è diventata adulta, le corna sono cresciute e ramificate. A trent’anni, chiaramente, l’AUTONOMIA è diventata una perfetta ETERONOMIA:
raffinerie milanesi, basi militari americane, alberghi musulmani.
Dopo due lunghe gravidanze, la Regione ha partorito due «Piani di Rinascita»: due «Piani», dico, ma la «Rinascita», come lal Signora Godot, non si è fatta ancora viva.

Alla fine dell’Ottocento, cioè dopo la cosiddetta «unità» delle patrie, la Sardegna, tosata e munta dai formaggiai continentali, veniva chiamata, con una similitudine agro-pastorale, la «pecora d’Italia»: ora, alla fine del Novecento cioè dopo la cosiddetta «autonomia» regionale, la Sardegna, violentata e inquinata dal Dio Petrolio, la possiamo tranquillamente chiamare, rispettando la similitudine agro-pastorale, una «forma di formaggio marcio». Altra legna viene piantata e importata in Sardegna.

In compenso, l’Isola esporta «emigranti» che, a onor del vero, trovano tutti lavoro, fuori casa, qualunque lavoro, magari facendo lo scimpanzé in un circo equestre, come è capitato a un emigrato del mio villaggio, soprannominato Mammutone, a causa della
sua bruttezza e del suo corpo peloso.
Esportiamo, pure, «sequestratori», anche se non sono più belli, né feroci, né prodi, come ai tempi di Sebastiano Satta, comunque portano l’etichetta «made in Sardinia».

E gli intellettuali? Il monolinguismo italiota si è divorato tutto, limba, letteratura, arte, musica, tutta la cultura, insomma, della Nazione Sarda.
Il Referendum popolare sul bilinguismo giace, morto sotterrato, sotto il culo dei consiglieri regionali.
Sembra compito specifico dell’intellettuale sardo, oggi, franare ideologicamente
il maggior numero possibile di volte. La frana ideologica - lo diceva Machiavelli - è necessaria per campare la vita.
Il poeta del villaggio ci ha fatto sopra un altro epigramma:

«Un tempo ero giovane cane,
senza fune né pane,
ora ho la pancia piena,
son diventato un cane da catena».

Ciò premesso, ritorniamo al privato, cioè dalla storia alla autobiografia. Qualcuno, infatti, potrebbe chiedermi: «Ma, tu, non fai altro che parlare del villaggio?»

Bene, gli risponderò che Tolstoj, Leone Tolstoj, mi ha
detto all’orecchio: «Descrivi il tuo villaggio e diventerai universale;
se cerchi di descrivere Parigi, diventerai provinciale».


In questi cinquant’anni di «storia di vinti», di «autonomia tradita», di «nazione mancata», mi è capitata la sorte di poter scoprire che, se volevo fare lo «scrittore» e non il pisciatinteri, il pisciainchiostro, non dovevo fare il «pifferaio dell’universo»: era meglio fare quello che i francesi chiamano l’avvertisseur del villaggio, una specie di cane da caccia, con la coda dritta indietro e il muso dritto in avanti, per fiutare e scovare la volpe nascosta.

Mal me ne incolse: gli insocatores mi hanno preso al laccio e sono diventato un mammutone.



Mi è di consolazione un ultimo epigramma del poeta del mio villaggio:
«C’è un momento,
nella storia di ognuno di noi,
in cui se tu dici
che due più due fa quattro,
ti crocefiggono.

L’importante è di non sapere
quanto soffre colui che è messo in croce,
l’importante è sapere
se, veramente, sì o no,
due più due fa quattro».


L’importante è che la terra continui a girare, nonostante il parere contrario del Tribunale dell’Inquisizione."

Francesco Masala

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